
Mi muoiono le formiche sul davanzale. Ogni mattino. Ogni mattino che nasce, di ogni giorno di tutti i giorni, apro la finestra e dall’alto della mia ombra benedico il loro trapasso, qualcuna ancora morente ma viva agita piano le zampe, forse in sofferenza. Un mondo sordo che nasce e muore in estremo silenzio. Una morte che non desta minima compassione. Una, dieci, cento formiche morte valgono il semplice fastidio di dover prendere un pennellino, uno straccio e nel massimo del ricercatezza all’igiene un detergente disinfettante al 99,9%. Una cordata parte da un qualche formicaio che posso solo immaginare qualche metro più giù, nella terra, fuori, sotto la finestra e dalla terra, saltello sul marciapiede, percorrendo uno stretto tratto di mattonato la grande salita sulla facciata del vecchio palazzo. Cinque piani per arrivare in cima, cinque piani di sacrificio per raggiungere il loro demiurgo ordinatore e nel mezzo per trovare la morte. Cinque piani che già al primo qualcuna di loro è già bella che andate. Cinque piani di cui non riesco ad immaginare il perché di tanta fatica. Camminano. Camminano sempre ed anche se ai miei occhi le vedo inerpicarsi, comunque camminano leggere come fossero in piano. Per loro tutto ha senso nel movimento: cammini e sei viva, sei ferma e sei morta. Un mondo laborioso, frenetico ma ordinato, tutte hanno il loro daffare, tutte una meta da raggiungere prima del trapasso sul mio davanzale. Fuori non c’è ancora vita umana, tolti gli sparuti automi che ancora nel sonno salgono nelle loro auto e pericolosamente partono per la loro giornata, un sorso al caffè dalla tazzina che fuma ancora debolmente, affacciato alla finestra con i gomiti nudi poggiati sul freddo marmo assisto alle fatiche ordinate e per qualcuna alla conclusione forse inattesa, forse non ragionata, non immaginata prima, in una fine pena sul lazzaretto che è diventato il mio davanzale. Mi viene da pensare che qualcun altro dall’alto stia assistendo allo spettacolo del mondo e magari non ne vedrà il microcosmo delle formiche ma noi altri che ci muoviamo sempre, camminiamo in ogni direzione, a piedi o con ogni altra sorta di mezzo e senza compassione per qualcuno che ne vedrà fermarsi e morire si porrà qualche domanda, un qualche perché. (luca)
§
*** sta di vedetta e non aspetta niente e nessuno si precipita a spegnere le luci e però la mia ombra stampata sulla cupola l’aggredisce e atterrisce e si precipita a spegnere le luci ma l’ombra l’ombra non vede e non racconta non chiede e non domanda è un’ombra l’ombra sta al buio a spiarla perché è certo che non è l’ombra mia che la spia cos’è che vuole? scannellare anche l’ombra negandomi la viva libertà di movimento ma che si pensa che rinculata dalla presenza vera io abbia modo e tempo di pazzeggiare sul muro sparata nella siluetta nera? ora intendo le promesse al vento i rinvii e l’ora giusta del ricevimento lontano dai pasti e dall’inebetimento al mattino quando la scimmia esce e lascia libero l’intendimento Jolanda Insana (Messina, 18 maggio 1937 – Roma, 27 ottobre 2016) da "la tagliola del disamore".