In fondo una stanza non è che il tuo rifugio più intimo, un’alcova posta in segretezza nell’isola che vuoi inespugnabile, corazza per la tua aurea. Il silenzio del primo mattino, la luce radiale che penetra dal basso della tapparella semichiusa e gli angoli in ombra che ancora furtiva questa non tocca ne danno forma, sono elementi che a loro insaputa ne danno dimensione. La stanza va ben oltre la sua fisicità, i muri non ne contengono che una parte, forse un nucleo, il talamo ideale dove i pensieri vorticano tra sogno e incubo, tra fantasia e realtà, tra l’inconsistente e il palpabile. L’aroma del caffè appena sgorgato nella caffettiera rimpiazza i vuoti mentali, zone prosciugate nella breve oscura intimità del sonno abbandonato ché in parte e che non si disvela mai totalmente, che al risveglio ti lascia attonito e insicuro: timido un risveglio, impavido il sonno che resta nella pesantezza delle palpebre, nel macigno nella testa. Il caffè fuori dal fuoco cede calore, il candore luminescente e smemorato del vuoto nella tazzina al suo fianco attende come non sapesse il senso della sua vacuità. Ci verso il caffè e amen. (luca)
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LA STANZA Questa mia stanza candida di fede, ad abitarla con eguale fede più giovane di me, lei sola crede alla mia nuova storia, tu non vuoi credere, dici è tutto provvisorio. Se mi lasci la morte o la speranza di mutare vagando non sai dire, né a credere sopporti che tu sia la presenza invocata. La mia stanza ha il vuoto che le lasci. Non le manca la sedia, ma il tuo posto. Non manca il giradischi, la tua voce manca e il silenzio dell’averti intorno. Mancano gli occhi tuoi più dello specchio. Alfonso Gatto (Salerno, 1909 - Grosseto, 1976)
Poesia tratta da Tutte le poesie, pagina 114 di 374 – Mondadori
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