
Pensavo alla ricercatezza smodata del dolce, in tutto, nel cibo, nei rapporti umani e nei rapporti umani in ogni sottocategoria che il genere umano ne è riuscito a coniare e questo non è un buon pensamento di primo mattino. Seduto davanti alla troppo luce chiara e penetrante della vetrata mi dico che dovrei pensare a cose più alte, agli elementi che governano la vita: al caffè buono, al riprendermi dal breve sonno, a trovare l’ispirazione per uscirne indenne. Non è un buon pensamento di primo mattino, seduto con la tazzina del caffè tra le mani, caldo come appena fuori dal fuoco, amaro come solo lui sa esserlo. Il mio caffè non è amaro, mi dico. Il mio caffè ha gusto, è – a suo modo – delicato e la delicatezza non è mai amara, mi dico. Il mio caffè regala calore, mi dico. Il mio caffè nel suo tepore lascia sensazioni buone come una carezza e la gentilezza non è mai amara, mi dico. Oggi, mi dico, più che nel passato, lo zucchero predomina. Me lo ripeto, lo zucchero è falso come è falso il mio sorriso al mondo d’ogni giorno. Lo zucchero è una maschera, mi dico. Il mio caffè lo voglio vero, almeno lui. Il mio caffè, mi dico, deve raccontarmi di sé senza cercare di piacermi. I miei cani non cercano di piacermi, mi sono accanto, caldi nel loro pelo candido e caldo, nel loro fiatare umido e caldo a fior di pelle, nel loro caldo accostarsi nel cercare il contatto, per sentirne la vicinanza, non vogliono piacermi, vogliono esserci. Il caffè c’è e c’è quando è nudo da travestimenti: zucchero bianco, canna, melassa, miele, saccarina vi deploro, camuffate il gusto, corrompete il palato, rovesciate l’intento e ne prendete possesso. Vi deploro. L’amaro che non sopportiamo è l’amore del caffè che tradiamo, lo uccidiamo. Al mattino solo caffè nero, caldo, senza dolcificante aggiunto, grazie. (luca)
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(Dicembre 1981) a domanda rispondo: lo ammetto, ho messo in carte, da qualche parte, con [arte, questa mia storia così: faccio il pagliaccio in piazza, sopra un palco: (io sono il cavadenti, il mangiae sputafuoco, l’equilibrista contorsionista, il domatore di tigri e [pulci, il ciarlatano con l’orvietano, l’incantatore di basilischi, il cartoe il chiro- mante, il zingaro, la spalla di un tony nano, il marrano): (mi cinge e preme [un’orda di medicini stile Petrolini, à la manière de Molière, con le sperticatissime siringhe (e scarpe lunghe con le lunghe stringhe), che mi atomizzano, a destra e a [manca, in giro, una nuvola densa di un deodorante disinfettante): mi infilo in bocca una mia [mano, scendo nella mia gola più profonda, con il mio braccio, e avanti, e sotto, [sempre più dentro, giù, passe-passe di passe-partout, finché mi afferro infine, lì in fondo [fino al fondo, con il mio dito (che mi è l’indice mio), l’anello del mio elastico sfintere: e tiro forte, è fatta: mi rovescio le viscere, e mi sembro la scuoiatura del coniglio, forse: e grido, su dall’ano, ma piano: venite qui, e vedete: è questo l’uomo nudo, il vivo e il vero, se lo prendi nell’intimo dell’imo (servito al naturale): Edoardo Sanguineti (Genova, 9 dicembre 1930 - Genova, 18 maggio 2010)
Versi tratti da Mikrokosmos (Poesie 1951-2004), Feltrinelli 2004. N.12 Dicembre 1981