Mattino, 2 Maggio 2020

La luce, soverchia, sferza sulle mie due piccole pupille, due sfere oculari pralinate con sabbia e terra, il chiarore dolente del primo mattino. Le palpebre tremanti rifiutano di aprirsi al mondo. Avverto l’assenza di sole, un punto di cielo velato sopra la mia testa, al di là della lastra di vetro di questa veranda. Avverto la presenza di vita tra gli alberi, tra la chioma della vasta magnolia che so davanti al mio finito orizzonte. Gli occhi chiusi al mondo non bastano per isolarmi completamente. Ascolto lo stridulo di un qualche uccello di cui ignoro nome ed esistenza. Sa essere piccolo, invisibile e chiassoso, è quello che mi viene da pensare. Sono sprazzi di suoni, di canti qualcuno direbbe, avvolti in un qualcosa di più forte: la forza fondamentale che avvolge il tutto: c’è silenzio. C’è silenzio. C’è silenzio e lo benedico. Un silenzio arrivato da mesi come manto pesante giù per la strada. C’è silenzio fuori come in questa casa, lo respiro, lo tocco con gli occhi che un po’ per volta accettano il giorno. C’è silenzio dentro e fuori. Un uccello canta ed è silenzio, il mio dito batte sul vetro ed è silenzio. Tra un insensato pensiero ed un altro è il silenzio. Dio, io lo benedico.
So che la caffettiera è a pezzi, in un angolo ed aspettare che io la ricomponga, che la gratifichi con della fresca acqua, con l’aroma della polvere di caffè. Non so come io sia riuscito ad arrivare dal letto sino a questo angolo, poggiato al freddo infisso della veranda ma so di certo che non arriverò mai a rimettere in sesto nessuna moka. Nessuna forza oscura avrà l’ardire di sospingermi. La macchina per l’espresso è più vicina, poco più d’un braccio da me. L’impresa è comunque ardua ma il silenzio appagante, tanto che la leggerezza nelle gambe ne diventi irrilevante, tanto che gli occhi, deboli, possano smettere di lottare contro la luce, tanto che il surreale vuoto di questi smisurati giorni possano acquistare importanza, un qualche senso. Il silenzio avvolge un canto, un impercettibile fremere di rametti, ali e foglie, un moto di luce leggera e di ombre che planano, un muto vento di sentimento interiore che soffia vita a questo giorno e sono qui poggiato al freddo d’un infisso e potrei restarci in eterno. Questo silenzio, finché resiste, non lo voglio sprecare.

perché io non voli, purché tu non
cada, purché la luce si faccia tutt’un
universo, ch’io dorma, nell’infortunato addio.
E che la tua gioconda veste di Sposo ti
ravvolga, che sia come per i Santi l’Unica
Cena, quel tuo sospirare senza sonniferi. Non vi è luce
senza gloria, e non vi è inferno
senza diffamazione. L’arido orizzonte
è un gioco di ombre: non seguirlo, non
tirare il sasso nell’acqua, – che tutto si
faccia da sé, anche nell’agonizzante silenzio.

Amalia Rossetti (Perch’io non voli…)
da Le Poesie (Garzanti, Gli Elefanti – 1997)

Mattino, 12 Giugno 2019

Il caffè è caldo ma troppo, la tazzina intoccabile. È lì, giace sul bracciolo a pochi centimetri da me, dove posso sentirne il calore pur non toccandola e l’aroma pur tenendola lontana quel tanto, sufficientemente lontana dal mio naso. Giace pericolosamente sulla lucida superficie in legno del pomo, ferma, equilibrista senza desiderarlo essere, instabile senza volerlo, consapevole del rischio che un mio maldestro movimento possa urtarla, rompere l’equilibrio e lasciare che rovesci se stessa in quel volo d’un impercettibile attimo che separa il bracciolo dal pavimento. Poco alto qualcuno penserebbe, alto abbastanza per defragrare in una nube composta da migliaia di oggetti cosmici e il caffè scia nera e rilucente ne seguirebbe inesorabilmente le sorti. La tazzina è terrorizzata, lo sento, il caffè allo stesso modo. Il loro timore è nella mia testa pesante del breve sonno, pensano con la mia testa pesante sul mio corpo pesante che giace informe come un cappotto lasciatosi cadere pesante sul divano. Pensano con la mia testa, luogo migliore dove costruire e incubare presentimenti, presagi e paure e loro lo sanno che per l’occasione non potevano trovare testa migliore. La luce che dalla vetrata entra senza bisogno d’alcun invito, prende sempre più possesso del volume della stanza, il tempo non rallenta d’un minimo neanche a pregarlo. Mi dico che è il momento. Allungo quel tanto la mano e della mano le dita per prendere tra indice e pollice il piccolo manico ceramico e nel preciso istante avverto come in un barlume l’impercettibile increspatura sulla superficie del caffè, la paura manifesta, la realizzazione di quanto la mia testa custodiva. Bevo il caffè, per lui la ritrovata pace. (luca)

§

Vorrei semplicemente descrivere

quello che vedo, non altro

non mi interessa inventare

mi piace camminare

e mi piace guardare

voglio guardare questi alberi quieti

e pazienti, dalle belle fronde,

che vivono silenziosamente e respirano l’aria

accanto a me, mentre io sono qui

loro sono là, mentre io li guardo

loro mi sentono, e stanno attenti a me

come io sto attento a loro,

voglio sdraiarmi, e dormire

mentre loro stanno in piedi, e mi guardano

oppure pensano a cose loro

gli succedono cose che io non so

e vorrebbero dirmele, e me le dicono, anche

oppure anche loro dormono

senza sdraiarsi, stando in piedi, dormono

uno accanto all’altro, stando semplicemente accanto.

Claudio Damiani 

Versi tratti da Poesie, Fazi Editore, 2010. Pag 146 di 176

Mattino, 2 Maggio 2019

Ci sono mattinate come quella di oggi in cui non ci capisci niente: bevi il tuo caffè di lato poggiato al vetro d’una finestra, fuori il giorni già dorato da un sole che già si innalza per superare la sua primavera e dentro non arriva niente. Tutto resta fuori, dentro è un sonno mordace. Ci sono mattine come questa in cui potrebbe piovere a dirotto e forse sarebbe meglio. Ma ci può stare, la luce interiore non per forza deve essere chiara come il giorno che nasce, calda come il sole che si mostra più alto dell’orizzonte. Ci sono mattine come questa che guardarsi dentro è difficile e guardare fuori stordisce.
Se c’è poesia difficile da esplorare questa non può che essere la poesia di chi per ovvie ragioni è ritenuto continuità del Baudelaire (al quale dedicò espliciti versi) ma non esplicitamente per questo la comprensione dei suoi versi è ardua (Baudelaire in fin dei conti era una luce nera ma comunque luminosa), è ardua perché il contenuto dei suoi versi viaggia fortemente a braccetto con la musicalità del verso stesso. Il tutto si perde inesorabilmente nella traduzione che, ahimè – a meno d’una buona padronanza del francese -, siamo costretti a leggere. Mallarmé, quindi, l’intraducibile. Ironia della sorte lui volle imparare l’inglese, lingua che poi insegnò anche, per poter leggere Edgar Allan Poe nell’originale. Difficile è la comprensione del suo verso ma meglio si adatta a me, adesso e meglio si adatta agli occhi dei tanti che come me cercano risposte e si perdono in “un lago dentro un cielo di nuda porcellana, / per una bianca nube una luna lontana / immerge il lieve corno nel gelo d’acque calme, / presso tre grandi cigli di smeraldo, le canne.” (luca)

§

Dans le jardin

La jeune dame qui marche sur la pelouse
Devant l’été paré de pommes et d’appas,
Quand des heures Midi comblé jette les douze,
Dans cette plénitude arrêtant ses beaux pas,

A dit un jour, tragique abandonnée – épouse –
A la Mort séduisant son Poëte : “Trépas !
Tu mens. Ô vain climat nul ! je me sais jalouse
Du faux Éden que, triste, il n’habitera pas.”

Voilà pourquoi les fleurs profondes de la terre
L’aiment avec silence et savoir et mystère,
Tandis que dans leur coeur songe le pur pollen :

Et lui, lorsque la brise, ivre de ces délices,
Suspend encore un nom qui ravit les calices,
A voix faible, parfois, appelle bas : Ellen !

Trad.

Nel giardino

La giovane donna che avanza sul prato
Innanzi all’estate adorna di pomi e di grazie,
Quando delle ore il pieno mezzodì scocca le dodici,
In quella pienezza fermando i bei passi,

Disse un giorno, tragica abbandonata, – sposa –
Alla morte che seduceva il suo Poeta: Trapasso!
Tu menti. O vano clima nullo! io mi so gelosa
Del falso Eden che, triste, egli non abiterà.

Ecco perché i fiori profondi della terra
L’amano con silenzio e scienza e mistero,
Mentre nel loro cuore sogna il puro polline:

Ed egli, quando la brezza, ebbra di delizie,
Sospende per un attimo un nome che i calici rapisce,
Con voce flebile, talvolta, chiama piano: Ellen!

Stéphane Mallarmé (Parigi, 18 marzo 1842 – Valvins, 9 settembre 1898)

Mattino, 1 Maggio 2019

La poesia occorrerebbe leggerla con gli occhi e con l’animo d’un bambino, di quel bambino che si chiede semplicemente il perché delle cose ma che non si risponde nella chiusura mentale d’un uomo che procede per strade ben note. La poesia bisognerebbe leggerla fuori dai preconcetti e dalle astruse ferme certezze che ognuno di noi crede di possedere. Ci sono però poesie che con tutti i preconcetti d’un uomo, con tutte le chiusure mentali possibili, hanno la grazia di arrivare chiare nella loro leggerezza, impossibile da sconfessare da idee dettate dal nostro vissuto. 
Questa mattina, mentre pensavo a quale poesia rileggere (al mattino amo andare sul sicuro, su sentieri già battuti dove perdermi è sempre possibile ma certo d’un perdermi in luoghi per me piacevoli), chissà perché, chissà come, davanti al caffè mi sono ritrovato a chiedermi quanto genio, quante menti, quanta vocazione artistica ha dovuto fare i conti con la propria pazzia o presunta tale. La risposta mi balena chiara, pur non avendo numeri alla mano, facendo un po’ di mente locale, facilmente ho potuto rispondermi con un: “tanti, veramente tanti. Sicuramente troppi”. E in effetti è facile risalire a qualche nome: Dino Campana – che ne scrive anche della sua mente indebolita – negli anni si ritrova a subire più volte l’elettroshock, tanto da darsi il nomignolo di Dino Edison e Alda Merini, tanto per partire da chi la vicissitudine del “manicomio” non ha mai smesso di cantarla, ma poi schizzofrenico era Kerouac e schizzofrenico era Rainer Maria Rilke, Mariella Meher (“riportami la notte,/ l’occhio del giorno/ mi strappa la ragione/…”), come non esenti di schizzofrenia erano Hemingway (la schizzofrenia lo portò al suicidio) e Ezra Pound – la mente più complessa del XX secolo colpevole di essersi infatuato dell’indolatrabile – del quale Hemingway ammise d’avergli insegnato a tirare di boxe e che da lui imparò cosa scrivere e cosa non scrivere. Ma poi anche Esenin che fa la stessa fine di Hemingway (impazzito anche lui) ma non con una canna di fucile in bocca ma con un cappio alla gola e poi le tanto ultimamente citate Sylvia Plath e Anne Sexton e Emily Dickinson smarrite nel loro disagio e poi non continuo più altrimenti ne uscirebbe qui il libro di quei pazzi pazzi poeti morti. Tra i tanti però non ci si può dimenticare di Guy De Moupassant che ebbe esperienza di clinica psichiatrica. “Moupassant è morto”, scrisse lui stesso in clinica, in realtà morì circa cinque mesi dopo. Moupassant, pur nella sua malattia (la sifilide), ebbe una vita entusasmante, fu preso sotto la protezione di Gustave Flaubert, conobbe e frequentò Turgenev, Emile Zola (e come non si può non impazzire con frequentazioni tali!) e i più grandi pensatori del suo tempo. Lo conosciamo per i suoi romanzi (Bel Ami, Forte come la morte), nei suoi racconti, le opere teatrali e racconti di viaggio ma scrisse poesie dai dolci sentimenti, versi che arrivano chiari nell’impossibilità d’essere mal interpretati o fuorviati e questi che ricordo ora credo siano tra i suoi più incantevoli.
Buona giornata nell’abbraccio di tutto quel che è amore. (luca)

§

Amore è una breve parola

Amore è una breve parola,
che però abbraccia tutte le altre,
perché comprende il corpo,
l’anima, la vita e tutto l’essere.
Noi lo percepiamo così
come avvertiamo il caldo del sangue,
lo scopriamo come l’aria,
lo portiamo in noi stessi come i nostri pensieri.
Per noi null’altro esiste di più importante.

Guy de Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893)