Mattino, 21 giugno 2019

Qualche passo più indietro.
Mattino, un letto. La reticente luce, l’oscurità diradata. | Torna qualcosa, non per molto. | Silenzio fuori. Silenzio dentro. | Occhi aperti – si fa per dire. | L’impertinente fischio d’aria penetrante nelle narici. | Il petto pieno ad ogni respiro, il vuoto nel ventre. | Il battito pungente, lento, delle palpebre. | Braccia e mani distese, ferme, gambe distese, ferme; | torna qualcosa: | torno a ruotare lento la testa, | torna ad apparire il soffitto in penombra, | tornano ad emergere gli oggetti intorno, | torno a realizzare che in fin dei conti sono sveglio, | in fin dei conti è un nuovo giorno. | Torna ad apparire il lampadario nel centro, | torna ad apparire la spigolosità della stanza, | il vuoto sovrastante, | l’inutile pienezza sottostante. | Vitalità, torna! | mai vissuta. | Torna, energia! | mai bruciata. | Voglia di sorprendermi, torna! | mai sei stata appagata. |Torna, voglia di fare! | mai ti sei realizzata. | Torna, voglia di disfare! | mai hai preso coraggio. | Torno a sedermi sul bordo del letto, a ritrovare le forze, | torno a rimettere i piedi per terra, | torno a muovere le dita delle mani, a rodare le dita dei piedi, | torno a trovare slancio per sollevarti. | Torno a guardarmi intorno. | Torno a rifare quanto fatto ieri e ieri l’altro e magari farò domani, ancora. | Torno alla finestra con occhio rapace dell’aria mattutina. | Torna il desiderio di caffè | – che qualcuno dovrà pur fare.
Non torna questa voglia di sputare in basso, | colpire a sputi uno, due, cento uomini, fino a saliva conclusa. | Non torna questa rabbia utile mai provata prima, | non torna un urlo mai sfogato prima. | Alcune cose tornano, altre meno, altre non tornano affatto. | Torna la voglia di ritornare supino sul letto, qualche passo più indietro, | il desiderio di spegnere la luce del giorno nato, | braccia e mani ferme ai lati, disteso, remissivo. | Qualcosa torna, solo qualche passo più indietro. (luca)

§

Assolo

Unico superstite di una razza
ancora da nascere,
nell’orrendo tentativo di abbracciarmi,
io mi sento:
male,
ma mi sento.
Un albero cui manca la forza
di tenere su le foglie,
un paio di scarpe senza nessuno dentro,
un uomo senza figli,
un impotente con mille bambini,
ancora senza basta.
Avevo un cuore che la camicia
non riusciva a nascondere.
È stato in un fosso
sotto i gelsi di more mature fino al sangue,
o sul divano di un salotto
di cui ricordo solo una canzonetta alla radio,
o forse è stato mangiando una mela
o una pera,
e magari fosse stata anguria!
che già al solo pensiero la preferisco.
I ricordi hanno strani sapori
che nemmeno l’aglio allontana.
Ma il silenzio,
vuoi metterlo,
quello di due persone
che non hanno il coraggio di dirsi!
Ecco, deve essere stato proprio lì
che mi sono accorto
d’essere uno
che messo vicino ad un altro
non fa due.
Non sono solo un uomo ma un uomo solo!

Fabio Garriba (1944-2016)

Versi di Fabio Garriba tratti da “Il fastidio delle parole – Poesie 1959-2015”, La nave di Teseo edizioni, 2018

Mattino, 16 giugno 2019

Al mattino le distanze si misurano in eternità: un’eternità, un’eternità e qualcosa, un’eternità e più di qualcosa, un’eternità e quasi un’altra eternità e così sia. Al mattino ogni passo è un allunaggio e il corpo sfatto come il letto sfatto. Il cuscino mantiene una forma concava e speculare del viso, il viso trattiene i segni della presenza che è stata del cuscino, della somma dei cuscini di ogni giorno trascorso perché, come un calendario, ogni mattino che passa i segni lasciati dai cuscini sono sempre più profondi. Arrivare all’angolo di cucina dove sono già in ordine gli elementi della moka e il vasetto del caffè macinato al mattino è un richiamare in sé ogni forza possibile. La forza la si cerca nell’ambiente che ci circonda, nel varco della porta, nella credenza, nel tavolo centrale, nello spazio tra il tavolo e il divano al muro, nel divano al muro, nel marmo del piano cottura, nei mobili pensili, insomma su ogni cosa sono costretto a reggermi per poter fare un passo. I cani, uno qua, uno là, ti guardano ed esclamano: «oh signore!», come se sapessero da sempre di un Signore. Che spasso il mattino, che avventura. Al mattino preparare il caffè è un gioco d’avventure spaziali: i gesti goffi e lenti sembrano ingovernabili: un cucchiaino affonda nella polvere di caffè, eternità, un cucchiaino esce fuori dalla polvere di caffè, eternità, un cucchiaino vola colmo di polvere di caffè tra il vasetto della polvere di caffè e l’imbutino già nella metà inferiore della moka, eternità. Qualche eternità dopo, nella vista offuscata d’un miope che vede come un miope appena sveglio e senza i vetri da miope agli occhi, prendi la grave decisione che gli eterni voli di polvere di caffè tra il vasetto e la moka possono bastare e conviene avvitare la parte superiore prima che la povere del caffè possa prendere il volo nell’infinito. Il fuoco. La fiamma azzurra sotto la moka, l’unico tocco di colore che al mattino riconosci tale. L’attesa eterna, i pensieri svegli del rincoglionito. Qualche eternità dopo l’aroma del caffè sgorgato punge al naso. L’aroma, l’elemento primordiale che ha il potere di accelerare gli attimi eterni come una curvatura nel tempo, smuove i sensi e gli oggetti e il mondo che ti circonda assumono una nuova nitidezza, una nuova prospettiva: è il risveglio. Puoi versare il caffè e bere a piccoli eterni sorsi mentre guardi fuori dalla vetrata, nel sole già caldo d’una estate iniziata troppo in fretta, nelle stagioni che non conoscono i tempi eterni, che si alternano senza badare a te, né a nient’altro. Fuori solo cinguettio e un tris di gatti: il tigrato, il bianco, il maculato e nient’altro. È il momento in cui realizzi che fuori è quel giorno che chiamiamo domenica. (luca)

§

Come per caso
 Tornano lunghissimi difficili i giorni
 così succede che mangiando un frutto
 o pulendomi il sedere
 io voglia ricominciare tutto da capo.
 Rifare pipì a letto,
 che la mamma mi tagliasse la carne nel piatto
 e qualcuno la mattina
 si incaricasse di vestirmi.
 Incapace di crescere e diventare grande,
 gli occhi che non riescono a fermare il tempo
 provo l’inutile parola
 e lo spavento a quel suono ormai estraneo.
 Nemico della mia stessa voce
 non mi resta che accorgermi con rumore
 d’essere ancora vivo,
 mi trascino a quattro zampe per casa,
 tossisco e sputo nei vasi da fiori,
 mi arrampico sui mobili.
 L’acqua alla gola, salgo sulla seggiola
 a guardarle queste giornate
 scappar via dietro alla finestra,
 con le mani tocco il vetro
 che mi separa da loro,
 buono solo a schiacciar qualche mosca.
 Scelgo pure il posto dove
 cadrò come per caso
 una volta o l’altra,
 poi apro un cassetto
 ci metto dentro la testa
 e non riesco più a chiuderlo.
 Sarà mio, come di mosca impazzita, il vetro che mi separa dalla realtà.

Fabio Garriba (Soave, 13 novembre 1944 – Verona, 9 agosto 2016)

Versi tratti da Il fastidio della parola; La Nave di Teseo edizioni, 2018.

Mattino, 9 Giugno 2019

In fondo una stanza non è che il tuo rifugio più intimo, un’alcova posta in segretezza nell’isola che vuoi inespugnabile, corazza per la tua aurea. Il silenzio del primo mattino, la luce radiale che penetra dal basso della tapparella semichiusa e gli angoli in ombra che ancora furtiva questa non tocca ne danno forma, sono elementi che a loro insaputa ne danno dimensione. La stanza va ben oltre la sua fisicità, i muri non ne contengono che una parte, forse un nucleo, il talamo ideale dove i pensieri vorticano tra sogno e incubo, tra fantasia e realtà, tra l’inconsistente e il palpabile. L’aroma del caffè appena sgorgato nella caffettiera rimpiazza i vuoti mentali, zone prosciugate nella breve oscura intimità del sonno abbandonato ché in parte e che non si disvela mai totalmente, che al risveglio ti lascia attonito e insicuro: timido un risveglio, impavido il sonno che resta nella pesantezza delle palpebre, nel macigno nella testa. Il caffè fuori dal fuoco cede calore, il candore luminescente e smemorato del vuoto nella tazzina al suo fianco attende come non sapesse il senso della sua vacuità. Ci verso il caffè e amen. (luca)

§

LA STANZA
 Questa mia stanza candida di fede,
 ad abitarla con eguale fede
 più giovane di me, lei sola crede
 alla mia nuova storia, tu non vuoi
 credere, dici è tutto provvisorio.
 Se mi lasci la morte o la speranza
 di mutare vagando non sai dire,
 né a credere sopporti che tu sia
 la presenza invocata.
 La mia stanza ha il vuoto che le lasci.
 Non le manca la sedia, ma il tuo posto.
 Non manca il giradischi, la tua voce
 manca e il silenzio dell’averti intorno.
 Mancano gli occhi tuoi più dello specchio.

Alfonso Gatto (Salerno, 1909 - Grosseto, 1976)

Poesia tratta da Tutte le poesie, pagina 114 di 374 – Mondadori

[Versi scelti esclusivamente per assonanza]

Mattino, 7 Luglio 2019

Nessun istante è perduto al mattino. Una volta in piedi, una volta davanti agli elementi fisici della caffettiera (il bricco superiore a destra, caldaia inferiore a sinistra, imbuto filtrante avanti alla caldaia inferiore, recipiente ermetico del caffè macinato e bottiglia dell’acqua dietro a tutto, io avanti a tutto), totalmente sveglio o ancora semicosciente o meglio ancora semincosciente, il processo è calcolato con estremo automatismo e precisione, anche quelle gestualità che appaiono genuine e goffe, comandate dai movimenti dai tempi lungi del primo risveglio. Io lo so, è scienza. È la mia scienza. È lo studio attento, costante e continuo di incalcolabili giorni costanti e continui, è l’analisi approfondita e dettagliata di un evento che si ripete uguale dall’alba dei miei tempi. Eppure uguale a sé non lo è mai. Già. Qualche granello cade sul tovagliolo di carta posto come base per l’operazione, talvolta l’acqua versata nella caldaia supera il livello ottimale ed è da svuotare quel tanto, talvolta è da rabboccare perché ne smetto troppo presto il versarci dell’acqua, tal rara volta tutto si commisura alla perfezione – non troppa né poca acqua, non troppo né poco caffè nell’imbuto, nessun granello versato – ma le rare volte son tanto rare che quando accadono stento a crederci finanche io stesso. Nessun istante è perduto al mattino. Una volta strette le due parti e posata la caffettiera sui ferri sovrastanti il fornello acceso a fiamma bassa, l’attesa: la fiamma dalla sfumatura azzurra e dal cuore dorato batte scoppiettante e nel silenzio ne guardo rapito, perso nel suo colore. È il momento del risveglio dei pensieri. È il momento in cui realizzo il colore della luce, se fuori è nuvoloso o riluce il sole, se piove o qualche uccello canta tra gli alberi a ridosso della veranda che dal primo piano ne bacia le chiome. Uno sguardo verso la veranda, uno sguardo alla caffettiera e alla fiamma del fornello e poi ancora agli alberi oltre la veranda e di nuovo al fornello. Tutto nasce lì, pensieri aromatizzati al primo caffè. (luca)

§

La verità, vi prego, sull’amore

Dicono alcuni che amore è un bambino,
e alcuni che è un uccello,
alcuni che manda avanti il mondo,
e alcuni che è un’assurdità,
e quando ho domandato al mio vicino,
che aveva tutta l’aria di sapere,
sua moglie si è seccata e ha detto che
non era il caso, no.

Assomiglia a una coppia di pigiami,
o al salame dove non c’è da bere?
Per l’odore può ricordare i lama,
o avrà un profumo consolante?
È pungente a toccarlo, come un pruno,
o lieve come morbido piumino?
È tagliente o ben liscio lungo gli orli?
La verità, vi prego, sull’amore.

I manuali di storia ce ne parlano
in qualche noticina misteriosa,
ma è un argomento assai comune
a bordo delle navi da crociera;
ho trovato che vi si accenna nelle
cronache dei suicidi,
e l'ho visto persino scribacchiato
sul retro degli orari ferroviari.

Ha il latrato di un alsaziano a dieta,
o il bum-bum di una banda militare?
Si può farne una buona imitazione
su una sega o uno Steinway da concerto?
Quando canta alle feste, è un finimondo?
Apprezzerà soltanto roba classica?
Smetterà se si vuole un po’ di pace?
La verità, vi prego, sull’amore.

Sono andato a guardare nel bersò;
lì non c’era mai stato;
ho esplorato il Tamigi a Maidenhead,
e poi l’aria balsamica di Brighton.
Non so che cosa mi cantasse il merlo,
o che cosa dicesse il tulipano,
ma non era nascosto nel pollaio,
e non era nemmeno sotto il letto.

Sa fare delle smorfie straordinarie?
Sull'altalena soffre di vertigini?
Passerà tutto il suo tempo alle corse,
o strimpellando corde sbrindellate?
Avrà idee personali sul denaro?
È un buon patriota o mica tanto?
Ne racconta di allegre, anche se spinte?
La verità, vi prego, sull’amore.

Quando viene, verrà senza avvisare,
proprio mentre mi sto frugando il naso?
Busserà la mattina alla mia porta,
o là sul bus mi pesterà un piede?
Accadrà come quando cambia il tempo?
Sarà cortese o spiccio il suo saluto?
Darà una svolta a tutta la mia vita?
La verità, vi prego, sull’amore.

Wystan Hugh Auden (York, Inghilterra, 21 febbraio 1907 - Vienna, 29 settembre 1973)

Poesia tratta dalla raccolta “La verità, vi prego, sull’amore” – Adelphi, 1994

Mattino, 6 Giugno 2019

La mano aperta nel canestro colmo di noci si muove come un mistico sulle braci, leggera, non affonda, si muove sfiorando appena le lignee lisci superfici, così lo sguardo perso nella vista fuori dalla veranda già assolata, leggero, tocca le spesse e lucide foglie di magnolia, posandosi qua e là delicatamente. Non è una semplice forma di rispetto, è un morbido approccio al giorno, è il penetrare lievemente tra le cose lasciando che si perdano nella vista e con esse io stesso. Il tepore della tazzina di caffè nell’altra mano mi tiene legato alla realtà del giorno, non ci fosse mi perderei come bruco tra l’intrigo di foglie e i flessibili rametti, mi farei poi farfalla per volarne via senza ritorno. Sono qui, l’odore del caffè mi afferra riconducendoli alla realtà dentro la stanza assolata, ricordandomi che fuggire con lo sguardo tra le foglie di magnolia non mi porterà da nessuna parte che non sia la mia sola pazzia. Sorseggio il caffè mentre una farfalla bianca vola via lontana da me perdendosi alla vista. (luca)

§

 FATALITÀ 

Questa notte m'apparve al capezzale
      Una bieca figura.
Ne l'occhio un lampo ed al fianco un pugnale,
Mi ghignò sulla faccia.—Ebbi paura.—
      Disse: «Son la Sventura.»

«Ch'io t'abbandoni, timida fanciulla,
      Non avverrà giammai.
Fra sterpi e fior, sino alla morte e al nulla,
Ti seguirò costante ovunque andrai.»
      —Scostati!... singhiozzai. 

Ella ferma rimase a me dappresso.
      Disse: «Lassù sta scritto.
Squallido fior tu sei, fior di cipresso,
Fior di neve, di tomba e di delitto.
      Lassù, lassù sta scritto.» 

Sorsi gridando:—Io voglio la speranza
      Che ai vent'anni riluce,
Voglio d'amor la trepida esultanza,
Voglio il bacio del genio e della luce!...
      T'allontana, o funesta.— 

Disse: «A chi soffre e sanguinando crea,
      Sola splende la gloria.
Vol sublime il dolor scioglie all'idea,
Per chi strenuo combatte è la vittoria.»
      Io le risposi:—Resta. 

 Ada Negri (Lodi, 3 Febbraio 1870 - Milano, 11 Gennaio 1945) 

La poesia è tratta dalla raccolta Fatalità a prefazione di Sofia Bisi Albini. Fratelli Treves Editori – 1911

Mattino, 5 Giugno 2019

Mi muoiono le formiche sul davanzale. Ogni mattino. Ogni mattino che nasce, di ogni giorno di tutti i giorni, apro la finestra e dall’alto della mia ombra benedico il loro trapasso, qualcuna ancora morente ma viva agita piano le zampe, forse in sofferenza. Un mondo sordo che nasce e muore in estremo silenzio. Una morte che non desta minima compassione. Una, dieci, cento formiche morte valgono il semplice fastidio di dover prendere un pennellino, uno straccio e nel massimo del ricercatezza all’igiene un detergente disinfettante al 99,9%. Una cordata parte da un qualche formicaio che posso solo immaginare qualche metro più giù, nella terra, fuori, sotto la finestra e dalla terra, saltello sul marciapiede, percorrendo uno stretto tratto di mattonato la grande salita sulla facciata del vecchio palazzo. Cinque piani per arrivare in cima, cinque piani di sacrificio per raggiungere il loro demiurgo ordinatore e nel mezzo per trovare la morte. Cinque piani che già al primo qualcuna di loro è già bella che andate. Cinque piani di cui non riesco ad immaginare il perché di tanta fatica. Camminano. Camminano sempre ed anche se ai miei occhi le vedo inerpicarsi, comunque camminano leggere come fossero in piano. Per loro tutto ha senso nel movimento: cammini e sei viva, sei ferma e sei morta. Un mondo laborioso, frenetico ma ordinato, tutte hanno il loro daffare, tutte una meta da raggiungere prima del trapasso sul mio davanzale. Fuori non c’è ancora vita umana, tolti gli sparuti automi che ancora nel sonno salgono nelle loro auto e pericolosamente partono per la loro giornata, un sorso al caffè dalla tazzina che fuma ancora debolmente, affacciato alla finestra con i gomiti nudi poggiati sul freddo marmo assisto alle fatiche ordinate e per qualcuna alla conclusione forse inattesa, forse non ragionata, non immaginata prima, in una fine pena sul lazzaretto che è diventato il mio davanzale. Mi viene da pensare che qualcun altro dall’alto stia assistendo allo spettacolo del mondo e magari non ne vedrà il microcosmo delle formiche ma noi altri che ci muoviamo sempre, camminiamo in ogni direzione, a piedi o con ogni altra sorta di mezzo e senza compassione per qualcuno che ne vedrà fermarsi e morire si porrà qualche domanda, un qualche perché. (luca)

§

***
sta di vedetta e non aspetta niente e nessuno si precipita a spegnere le luci
e però la mia ombra stampata sulla cupola
l’aggredisce e atterrisce
e si precipita a spegnere le luci
ma l’ombra l’ombra non vede e non racconta
non chiede e non domanda
è un’ombra l’ombra
sta al buio a spiarla
perché è certo che non è l’ombra mia
che la spia
cos’è che vuole?
scannellare anche l’ombra
negandomi la viva libertà di movimento
ma che si pensa
che rinculata dalla presenza vera
io abbia modo e tempo di pazzeggiare sul muro
sparata nella siluetta nera?
ora intendo le promesse al vento
i rinvii e l’ora giusta del ricevimento
lontano dai pasti e dall’inebetimento
al mattino quando la scimmia esce
e lascia libero l’intendimento

Jolanda Insana (Messina, 18 maggio 1937 – Roma, 27 ottobre 2016)
da "la tagliola del disamore". 

Mattino, 2 Giugno 2019

Nel silenzio la luce che si rafforza di breve in breve, con il passare degli attimi e non nei tempi eterni, restituisce colore alla stanza: il senape dei cuscini color senape, il noce della credenza color noce, Il blu fiorito del quadro blu fiorito alla parete, il verde e bianco e verde del canovaccio verde e bianco e verde maldestramente appeso al becco del rubinetto, lo stesso bianco luce della bianca luce che entra dalla vetrata e ogni cosa tocca; finanche la TV, per lo più sempre spenta, dal nero profondo del suo schermo restituisce colore e lucentezza come uno goliardico specchio che par dica «son’ nero ma rifletto / se su di me non vuoi specchiarti / come in uno spocchioso specchio, accendini / per veder cos’altro trasmetto.». Non ti accenderò. Tutto si ravviva, anche la tenda che leggiadra dinanzi alla finestra un po’ aperta, nella sua estremità, muove in un respiro che seguo al pari con il mio, lento. Tutto è colore, tutto si ravviva. Il caffè fuma ancora, la mano trema, trema quel tanto e il tintinnio dolce della ceramica della tazzina sul piattino è il solo rumore nella stanza, da fuori il cinguettio di uccelli tra i rami robusti della magnolia sprigiona vita e libertà che potrei scambiare per gioia. (luca)

§

Finché non diventa vanità non è libertà
ma è solo l’anima in pena che si descrive
mentre paradossalmente non si prescrive
altro che accomodamenti.
Perché così solitaria: è per esempio:
questo che ti lega al foglio di carta
e alla bianca pagina (si cancellò poi)
e in ciò facendo tu vedesti aprirsi
altre scarse ragioni di fare il morto.
Morto o vivo che crudeltà: non hai alcun
modo d’esprimere buone intenzioni che
hanno tutta l’apparenza agli occhi incuriositi
d’esser tutt’altro che libertà.
Faccende oscure ti riempiono la mente
di torture mal e difficili da sopportare
ma tu nella tua chiarezza impervertita
vedrai un giorno forse, forse (e ne
sono sicura quasi) (se non muori) pervertirsi
la tua anima in un più generoso dono
che è lo scrivere adorando e perdendo
ogni giorno della tua giornata perdendo
la facilità che tu hai a descrivere
queste minuzie di così poca importanza

Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 - Roma, 11 febbraio 1996) 

Poesia tratta da “Amelia Rosselli – Le poesie”, ed. Garzanti (1997) – sezione Documento 1966-1973, pag.241

Mattino, 31 Maggio 2019

C’è un uomo adagiato flaccido in un angolo del divano, nella nuova chiara luce del giorno, braccia e mani conserte e schiena e capo chino. C’è un involucro umano lì poggiato, pare ottuso, vuoto di contenuto, pare leggero di sola carcassa. C’è un uomo che non alza lo sguardo, vuoto d’aria interiore, falsamente desto, forse ancora vinto e sottomesso all’ultimo sonno notturno. C’è un uomo che non vuol muoversi o non ne ha le forze o semplicemente affranto lascia domarsi, aspetta l’evento che lo sollevi di peso e lo comandi, che sia del cielo, che sia terreno. C’è un uomo e la sua tazzina di caffè ferma sul bordo del bracciolo accanto a sé ed entrambi appaiono smarriti: uno dalla tepidezza quasi perduta vorrebbe lo si bevesse, l’altro ormai perduto non sa più. Fuori dalla vetrata il lieve vento ravviva le lucide foglie della magnolia, muove i capelli a due passanti e i primi raggi di sole rendono calore al gatto sazio e soddisfatto d’una notte di razzie. Fuori la vita torna a vivere o non ha smesso mai. (luca)

§

LO SPLENDIDO LUOGO COMUNE 

In questo albergo
Il capocameriere dice:
« Bella giornata, oggi! »,
e sorride con sentimento.
II capocameriere dice:
« Pioverà, oggi! »,
e si acciglia con garbo.
Sono i saluti di ogni giorno,
a ogni vecchia signora,
a ogni vecchio gentiluomo,
a ogni vecchio furfante,
a ogni giovane coppia -
a ogni cliente.

E io, che non dormo, che veglio in attesa dell’alba,
vorrei un giorno scendere sul mondo.
Vorrei una tromba potente come il vento
per suonare al mondo
lo splendido luogo comune:
« Bella giornata, oggi! ».
E un altro giorno griderei disperato:
« Pioverà oggi! »
per ogni vecchia signora,
per ogni vecchio gentiluomo,
per ogni vecchio furfante,
per ogni giovane coppia -
Non sono forse clienti in questo albergo
che per tetto ha il cielo,
per pavimento la terra,
e per stanza le case? 

Ma io, io - questa miserabile, stanca cosa -
posso chiedere il posto
di capocameriere
in questo albergo? 

Emanuel Carnevali (Firenze, 4 dicembre 1897 - Bologna, 11 gennaio
1942) 
Poesia tratta da "Il primo Dio. Poesie scelte, racconti e scritti
critici", p.148, Adelphi Ed. 1978

Mattino, 30 Maggio 2019

Una frase mi martella nella testa sin dal primo risveglio, sin da prima di girarmi sul fianco per sedermi sul letto e mettere i primi piedi in terra – non c’è niente di più bello del freddo che accarezza la pianta del piede quando ancora avvolto nel terpore lasciato dalle coltri ne risveglia la carne dal sonno delle ore notturne e si appropria del corpo in un niente, fino al primo brivido che ne scuote il corpo in brevi involontarie contrazioni. Ma queste sono solo chiacchiere che provo a elaborare per distogliere quei pensieri invadenti che una volta nati ti precedono in ogni movimento, in ogni azione, in ogni punto tu stia a guardare, sono lì finanche nella caldaia della caffettiera, pronti ad uscire prima del primo caffè, sono lì sulla superficie del caffè nella tazzina pronti ad essere ribevuti prima del primo sorso del primo caffè. Prima loro, prima di tutto. Quale era la frase, il pensiero, il verso? Speravo di non pensarci più ed invece è qui ad assillarmi ancora. Thomas Merton ne ha intitolato un saggio e se n’è liberato, prima di lui Ernest Emingway ne ha dato titolo ad uno dei suoi romanzi più belli e se n’è liberato, molto prima di lui John Donne ne ha scritto una meditazione, per sé e per tutti e se n’è liberato ed ora qui io che non sono un niente di nessuno che ci penso e ci ripenso nel chiuso di queste quattro mura, nel silenzio, alla luce del giorno proveniente dalla vetrata alla quale mi affaccio e che ne riempie la stanza, come posso pensare di liberarmene? Nessun uomo è un’isola, mi dice. Mi torna quasi come una cantilena, come stornello, come, minuetto, come nenia che viene fuori da vecchie processioni funebri. Quindi? Io che ci provo mai ci riuscirò? Mai una stanza mi lascerà isolato dal tutto? mai quattro mura mi chiuderanno in me stesso? mai alla vista di un cane zoppicante eviterò di provare compassione, mai non potrò gioire per i due ragazzi che vedo baciarsi poggiati al muro nella certezza di non essere visti? Nessun uomo è un’isola e la campana che odo suona per me e per tutti, che sia del primo risveglio, che suoni a festa o a morto, la campana suona per me e per tutti e una stanza non mi isolerà, una campana è la scialuppa che lega alla terra ferma del continente umano ed anche volendo non potrò ignorarne il suono, così come non potrò ignorare la prima luce del sole al suo nascere, così come non potrò ignorarne la scia di una stella cadente quando capita di poterne vedere una. Questo pensiero, questa frase, questo verso bevuto con questo primo caffè, questa scena d’un bacio rubatato nascosto dietro ad un vetro, questo cane che annusa sul ciglio della strada e che dall’alto vedo camminare zoppicando nella sua zampa anteriore non mi aiuteranno, mi riportano fuori dalle quattro mura, dall’isola e mi fanno parte d’un continente al quale sfuggo o cerco di sfuggire. Un altro caffè ora mi è indispensabile. (luca)

§

Nessun uomo è un'isola

Nessun uomo è un'isola,
completo in sé stesso;
ogni uomo è un pezzo di continente,
una parte del tutto;
se una sola zolla di terra viene portata via dal mare,
l'intera Europa ne è sminuita,
come se si trattasse di un intero promontorio,
di una intera tenuta di un nostro amico
o nostra.
La morte di qualsiasi uomo ci sminuisce,
poiché noi siamo parti pulsanti dell'intera umanità;
e quindi
non mandare mai a chiedere
per chi suona la campana
e chi sta chiamando;
essa suona per te.

John Donne (1572, Londra - 1631, Londra)
No man is an island

No man is an island,
Entire of itself,
Every man is a piece of the continent,
A part of the main.
If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less.
As well as if a promontory were.
As well as if a manor of thy friend's
Or of thine own were:
Any man's death diminishes me,
Because I am involved in mankind,
And therefore never send to know
for whom the bell tolls;
It tolls for thee.

John Donne (1572, Londra - 1631, Londra)

ps:
In buona sostanza questi di Donne, assimilati così a mo’ di versi, non sono altro che parte finale d’una meditazione “in devozione per le occasioni d’emergenza” (meditazione XVII) scritta per sermone.

Mattino, 23 Maggio 2019

Mi scopro

Scopro al raggiungimento dei quarantacinque che potevo vivere molto meglio gli anni vissuti e scopro che non c’è rimedio. Scopro d’aver sognato troppo lasciando che la realtà ne approfittasse abusando di me. Scopro che non provo più un gran dolore. Scopro che un tempo contavo sulle notti, ora vivo di alba in alba. Scopro che sono più cattivo di quel che avrei mai immaginato: sterminerei zanzare, mosche e formiche ed anche le lumache senza guscio. Scopro che c’è stato un tempo in cui sorridevo molto, scopro che ora mi sforzo meno. Scopro che talvolta sogghigno. Scopro una propensione a fregarmene del prossimo quasi come per me stesso. Scopro che a contar le parole dette ai miei cani queste superano di gran lunga i dialoghi tenuti con gli altri miei simili. Scopro che perdo più tempo a guardare in una foglia che non nella testa degli altri. Scopro che il vino è santo ed è l’unico a fare veri miracoli. Scopro che la TV da’ il meglio di sé quando è spenta. Scopro che due scarpe comode riescono a condurti dove non possono quattro ruote gonfie. Scopro che senza scarpe si cammina anche meglio. Scopro che un libro in una mano è più confortevole d’una stretta di mano. Scopro che la misantropia non è una malattia ma un dono degli dei: ti tiene alla larga dalla stragrande maggioranza dei pericoli. Scopro che un tempo vedevo un futuro e scopro che quel tempo e il futuro sognato sono ora in fondo al mare dove ho fatto sì di assicurarli ad un grosso scoglio. Scopro che il caffè che ho davanti se mancasse renderebbe triste questo mio nuovo giorno.
Scopro che non ho più granché voglia di scoprire dell’altro. (luca)

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MEMORANDUM
Malta, 22 maggio 1811

Primo: A ventitré anni il meglio della vita è andato e le sue amarezze raddoppiano.
Secondo: Ho visto gli uomini di vari paesi e li ho trovati altrettanto spregevoli, se mai l’ago della bilancia pende a favore dei turchi.
Terzo: Sono affranto.

Me jam nec faemina... 
Nec Spes animi credula mutui
Nec certare juvat Mero.¹

Quarto: Un uomo zoppo da una gamba è in una condizione d’inferiorità fisica che aumenta con gli anni e finirà per rendergli la vecchiaia più stizzosa e insopportabile. Per giunta, in un’altra esistenza mi aspetto due se non quattro gambe a titolo di risarcimento.
Quinto: Sto diventando egoista e misantropo come l’allegro mugnaio: «Non m’importa di nessuno, a me, E a nessuno importa di me».²
Sesto: I miei affari in patria e all’estero sono alquanto deprimenti.
Settimo: Sono sopravvissuto a tutte le mie brame e alla maggior parte delle mie vanità, sì, perfino alla vanità di ritenermi uno scrittore.

George Gordon Byron (Londra, 22 gennaio 1788 - Missolungi, 19 aprile 1824)

Da "Un vaso d'alabastro illuminato dall'interno: Diari", edito da Adelphi

(¹) Citazione approssimativa da Orazio, Odi, IV, 1, 29-31: «Né donna né fanciullo / Né speranza ingenua d’affetto corrisposto / Né gare di vino dove cimentarmi»
(²) The Jolly Miller (o The Miller of Dee), canzone tradizionale inglese