Mattino, 31 Maggio 2019

C’è un uomo adagiato flaccido in un angolo del divano, nella nuova chiara luce del giorno, braccia e mani conserte e schiena e capo chino. C’è un involucro umano lì poggiato, pare ottuso, vuoto di contenuto, pare leggero di sola carcassa. C’è un uomo che non alza lo sguardo, vuoto d’aria interiore, falsamente desto, forse ancora vinto e sottomesso all’ultimo sonno notturno. C’è un uomo che non vuol muoversi o non ne ha le forze o semplicemente affranto lascia domarsi, aspetta l’evento che lo sollevi di peso e lo comandi, che sia del cielo, che sia terreno. C’è un uomo e la sua tazzina di caffè ferma sul bordo del bracciolo accanto a sé ed entrambi appaiono smarriti: uno dalla tepidezza quasi perduta vorrebbe lo si bevesse, l’altro ormai perduto non sa più. Fuori dalla vetrata il lieve vento ravviva le lucide foglie della magnolia, muove i capelli a due passanti e i primi raggi di sole rendono calore al gatto sazio e soddisfatto d’una notte di razzie. Fuori la vita torna a vivere o non ha smesso mai. (luca)

§

LO SPLENDIDO LUOGO COMUNE 

In questo albergo
Il capocameriere dice:
« Bella giornata, oggi! »,
e sorride con sentimento.
II capocameriere dice:
« Pioverà, oggi! »,
e si acciglia con garbo.
Sono i saluti di ogni giorno,
a ogni vecchia signora,
a ogni vecchio gentiluomo,
a ogni vecchio furfante,
a ogni giovane coppia -
a ogni cliente.

E io, che non dormo, che veglio in attesa dell’alba,
vorrei un giorno scendere sul mondo.
Vorrei una tromba potente come il vento
per suonare al mondo
lo splendido luogo comune:
« Bella giornata, oggi! ».
E un altro giorno griderei disperato:
« Pioverà oggi! »
per ogni vecchia signora,
per ogni vecchio gentiluomo,
per ogni vecchio furfante,
per ogni giovane coppia -
Non sono forse clienti in questo albergo
che per tetto ha il cielo,
per pavimento la terra,
e per stanza le case? 

Ma io, io - questa miserabile, stanca cosa -
posso chiedere il posto
di capocameriere
in questo albergo? 

Emanuel Carnevali (Firenze, 4 dicembre 1897 - Bologna, 11 gennaio
1942) 
Poesia tratta da "Il primo Dio. Poesie scelte, racconti e scritti
critici", p.148, Adelphi Ed. 1978

Mattino, 30 Maggio 2019

Una frase mi martella nella testa sin dal primo risveglio, sin da prima di girarmi sul fianco per sedermi sul letto e mettere i primi piedi in terra – non c’è niente di più bello del freddo che accarezza la pianta del piede quando ancora avvolto nel terpore lasciato dalle coltri ne risveglia la carne dal sonno delle ore notturne e si appropria del corpo in un niente, fino al primo brivido che ne scuote il corpo in brevi involontarie contrazioni. Ma queste sono solo chiacchiere che provo a elaborare per distogliere quei pensieri invadenti che una volta nati ti precedono in ogni movimento, in ogni azione, in ogni punto tu stia a guardare, sono lì finanche nella caldaia della caffettiera, pronti ad uscire prima del primo caffè, sono lì sulla superficie del caffè nella tazzina pronti ad essere ribevuti prima del primo sorso del primo caffè. Prima loro, prima di tutto. Quale era la frase, il pensiero, il verso? Speravo di non pensarci più ed invece è qui ad assillarmi ancora. Thomas Merton ne ha intitolato un saggio e se n’è liberato, prima di lui Ernest Emingway ne ha dato titolo ad uno dei suoi romanzi più belli e se n’è liberato, molto prima di lui John Donne ne ha scritto una meditazione, per sé e per tutti e se n’è liberato ed ora qui io che non sono un niente di nessuno che ci penso e ci ripenso nel chiuso di queste quattro mura, nel silenzio, alla luce del giorno proveniente dalla vetrata alla quale mi affaccio e che ne riempie la stanza, come posso pensare di liberarmene? Nessun uomo è un’isola, mi dice. Mi torna quasi come una cantilena, come stornello, come, minuetto, come nenia che viene fuori da vecchie processioni funebri. Quindi? Io che ci provo mai ci riuscirò? Mai una stanza mi lascerà isolato dal tutto? mai quattro mura mi chiuderanno in me stesso? mai alla vista di un cane zoppicante eviterò di provare compassione, mai non potrò gioire per i due ragazzi che vedo baciarsi poggiati al muro nella certezza di non essere visti? Nessun uomo è un’isola e la campana che odo suona per me e per tutti, che sia del primo risveglio, che suoni a festa o a morto, la campana suona per me e per tutti e una stanza non mi isolerà, una campana è la scialuppa che lega alla terra ferma del continente umano ed anche volendo non potrò ignorarne il suono, così come non potrò ignorare la prima luce del sole al suo nascere, così come non potrò ignorarne la scia di una stella cadente quando capita di poterne vedere una. Questo pensiero, questa frase, questo verso bevuto con questo primo caffè, questa scena d’un bacio rubatato nascosto dietro ad un vetro, questo cane che annusa sul ciglio della strada e che dall’alto vedo camminare zoppicando nella sua zampa anteriore non mi aiuteranno, mi riportano fuori dalle quattro mura, dall’isola e mi fanno parte d’un continente al quale sfuggo o cerco di sfuggire. Un altro caffè ora mi è indispensabile. (luca)

§

Nessun uomo è un'isola

Nessun uomo è un'isola,
completo in sé stesso;
ogni uomo è un pezzo di continente,
una parte del tutto;
se una sola zolla di terra viene portata via dal mare,
l'intera Europa ne è sminuita,
come se si trattasse di un intero promontorio,
di una intera tenuta di un nostro amico
o nostra.
La morte di qualsiasi uomo ci sminuisce,
poiché noi siamo parti pulsanti dell'intera umanità;
e quindi
non mandare mai a chiedere
per chi suona la campana
e chi sta chiamando;
essa suona per te.

John Donne (1572, Londra - 1631, Londra)
No man is an island

No man is an island,
Entire of itself,
Every man is a piece of the continent,
A part of the main.
If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less.
As well as if a promontory were.
As well as if a manor of thy friend's
Or of thine own were:
Any man's death diminishes me,
Because I am involved in mankind,
And therefore never send to know
for whom the bell tolls;
It tolls for thee.

John Donne (1572, Londra - 1631, Londra)

ps:
In buona sostanza questi di Donne, assimilati così a mo’ di versi, non sono altro che parte finale d’una meditazione “in devozione per le occasioni d’emergenza” (meditazione XVII) scritta per sermone.

Mattino, 23 Maggio 2019

Mi scopro

Scopro al raggiungimento dei quarantacinque che potevo vivere molto meglio gli anni vissuti e scopro che non c’è rimedio. Scopro d’aver sognato troppo lasciando che la realtà ne approfittasse abusando di me. Scopro che non provo più un gran dolore. Scopro che un tempo contavo sulle notti, ora vivo di alba in alba. Scopro che sono più cattivo di quel che avrei mai immaginato: sterminerei zanzare, mosche e formiche ed anche le lumache senza guscio. Scopro che c’è stato un tempo in cui sorridevo molto, scopro che ora mi sforzo meno. Scopro che talvolta sogghigno. Scopro una propensione a fregarmene del prossimo quasi come per me stesso. Scopro che a contar le parole dette ai miei cani queste superano di gran lunga i dialoghi tenuti con gli altri miei simili. Scopro che perdo più tempo a guardare in una foglia che non nella testa degli altri. Scopro che il vino è santo ed è l’unico a fare veri miracoli. Scopro che la TV da’ il meglio di sé quando è spenta. Scopro che due scarpe comode riescono a condurti dove non possono quattro ruote gonfie. Scopro che senza scarpe si cammina anche meglio. Scopro che un libro in una mano è più confortevole d’una stretta di mano. Scopro che la misantropia non è una malattia ma un dono degli dei: ti tiene alla larga dalla stragrande maggioranza dei pericoli. Scopro che un tempo vedevo un futuro e scopro che quel tempo e il futuro sognato sono ora in fondo al mare dove ho fatto sì di assicurarli ad un grosso scoglio. Scopro che il caffè che ho davanti se mancasse renderebbe triste questo mio nuovo giorno.
Scopro che non ho più granché voglia di scoprire dell’altro. (luca)

§

MEMORANDUM
Malta, 22 maggio 1811

Primo: A ventitré anni il meglio della vita è andato e le sue amarezze raddoppiano.
Secondo: Ho visto gli uomini di vari paesi e li ho trovati altrettanto spregevoli, se mai l’ago della bilancia pende a favore dei turchi.
Terzo: Sono affranto.

Me jam nec faemina... 
Nec Spes animi credula mutui
Nec certare juvat Mero.¹

Quarto: Un uomo zoppo da una gamba è in una condizione d’inferiorità fisica che aumenta con gli anni e finirà per rendergli la vecchiaia più stizzosa e insopportabile. Per giunta, in un’altra esistenza mi aspetto due se non quattro gambe a titolo di risarcimento.
Quinto: Sto diventando egoista e misantropo come l’allegro mugnaio: «Non m’importa di nessuno, a me, E a nessuno importa di me».²
Sesto: I miei affari in patria e all’estero sono alquanto deprimenti.
Settimo: Sono sopravvissuto a tutte le mie brame e alla maggior parte delle mie vanità, sì, perfino alla vanità di ritenermi uno scrittore.

George Gordon Byron (Londra, 22 gennaio 1788 - Missolungi, 19 aprile 1824)

Da "Un vaso d'alabastro illuminato dall'interno: Diari", edito da Adelphi

(¹) Citazione approssimativa da Orazio, Odi, IV, 1, 29-31: «Né donna né fanciullo / Né speranza ingenua d’affetto corrisposto / Né gare di vino dove cimentarmi»
(²) The Jolly Miller (o The Miller of Dee), canzone tradizionale inglese

Mattino, 22 Maggio 2019

I francesi sono votati all’amore, i tedeschi, gli austriaci, i polacchi, i russi pensano troppo, gli italiani sognano sempre, gli americani tutti viaggiano con la mente, gli asiatici lavorano e lavorano, gli africani passeggiano nelle memorie del tempo; io resto qui, nella stanza, nella quiete distratta dalla bianca luce che mi viene in viso, regalo giornaliero del forte sole, resto qui nel traguardo dei quarantacinque che non so cosa significhino realmente – mezz’età? adulto? grande? segnato? finito? nel meglio? il meglio è già dato? cosa? -, resto qui a contemplare questa tazzina che mostra i segni del caffè bevuto come bevuti sono gli anni indubbiamente trascorsi e che hanno segnato i miei piedi, le mie gambe, sangue e cuore, le mani, i capelli ormai andati, la mia vista, resto qui finché le natiche e i fianchi schiacciati in poltrona non sentiranno il fastidio del peso del corpo, resto qui finché il senso di stordimento non cesserà. Camminare con un tale carico sulle spalle richiede una mente lucida, una vista chiara, un pensiero unico. Camminare vuole impegno, vuole forza, vuole propensione al sacrificio. Camminare vuole una buona strada che ancora devo scorgere. (luca)

§

Orizzonte

Mare anteriore a noi, le tue paure 
avevano corallo e spiagge e alberete. 
Disvelate la notte e la caligine, 
le trascorse tormente ed il mistero, 
il Lontano sbocciava, e il siderale Sud 
splendeva sulle navi dell’iniziazione.

Severa linea della costa remota – 
quando la nave si approssima sorge la proda 
in alberi in cui il Lontano nulla aveva; 
più vicino, la terra si apre in suoni e colori; 
allo sbarco, ci sono uccelli, fiori, 
dove era solo, di lontano, la linea astratta.

Il sogno è scorgere le forme invisibili 
dalla vaga distanza e, con sensibili 
moti della speranza e della volontà, 
cercare sulla fredda linea dell’orizzonte 
albero, spiaggia, fiore, uccello, fonte – 
i baci meritati della Verità.

Fernando António Nogueira Pessoa (Lisbona, 13 giugno 1888 – Lisbona, 30 novembre 1935)

Da Poesie esoteriche, Guarda editore

Mattino, 20 Maggio 2019

Cosa mi accade? Me lo chiedo. Non sento più la mia voce rarefatta. Non provo più il vuoto nel fondo della gola, nel centro del pensiero, quell’assenza nata come un precipizio senza fondo. Cosa mi accade ogni nuovo giorno? Dov’è quel fondo a me agevole in cui, fino all’ultimo sonno, mi aggiro, fuggiasco, lontano da ogni roboare, adombrato e protetto, confortato dal niente, quel fondo che dà alla mia più flebile voce un suono distorto, innaturale, quel fondo che di eco in eco accresce le distanze tra me e il mondo?
Il frinire di una natura che sento e non vedo, i tagli di luce sul vetro, il muovere del robusto fogliame a ridosso di questa finestra, la tazzina tra le mani, il nero del caffè ancora da bere, il gatto più giù che scava senza sosta nell’erba, nella rossa terra, il movimento cacofonico d’una città già sveglia che sento muoversi fuori da ogni mia vista, il cielo più in alto, pregno d’ogni variante di grigio, tutto mi sbalza fuori inesorabilmente, ogni nuovo giorno, giorno dopo giorno e riguadagnarmi quel fondo è una ricerca difficile. Cosa mi succede? Cos’è che mi vuole sempre fuori ad ogni rinascere di giorno? (luca)

§

Se mi siedo sul ciglio
di questa voragine
scavata nei sassi,
se m’affaccio a guardare
nel piccolo specchio d’acqua
del fondo,
e mi metto ad ascoltare
il tonfo del mare,
e sento tra le dita
la grana antica di questa terra,
comprendo che siamo rimasti noi soli
e i pallidi voli
di qualche gabbiano.
Antica “Poesia”,
poesia dimenticata,
la tua voce rimane inascoltata
come la mia.
Mi calo nel tuo fondo
e canto,
tanto
non ci ascolta nessuno,
perché diciamo le stesse cose,
perché abbiamo la stessa voce
antica e triste del passato.

Rina (Caterina) Durante (Melendugno (Le), 1931 - Lecce, 2004)
Poesia tratta da Il tempo non trascorre invano, 1951

Mattino, 19 Maggio 2019

Giorno detto domenica / detto settimo giorno / giorno ultimo della settimana / detto giorno di riposo / giorno di preghiera / giorno di comunione / di comunella / giorno di festa / giorno devoto / di devozione / giorno di ritrovo / giorno dal quotidiano sotto braccio / giorno di passeggiate / giorno di bellavita / di bagno al mare a mezzogiorno / giorno di banchetto parentale / giorno di pastelle / giorno di corse podistiche cittadine / di pedalate spensierate / giorno di aperitivi con gli amici / giorno finanche di gente che lavora. Ci vestiamo da pecora, chi bianca, chi nera, ci ritroviamo estranei a belare tra estranei l’uno in viso all’altro, l’uno in culo all’altro, contenti di sembrare contenti ed io, in questo nuovo mattino, mentre assaporo il mio caffè e da questa finestra guardo una strada ancora spenta dal ruminare domenicale, penso a quale abito indossare – pecora nera o pecora bianca -, di certo non da lupo per rovinar la festa ma da pecora, per lasciarmi intorpidire come tutti dall’effluvio domenicale. (luca)

§

Bandiere di maggio

Ai chiari rameggi dei tigli
muore un estenuato hallalì¹.
Ma canzoni argute
volteggiano tra l'uva spina.
Il sangue rida nelle nostre vene:
ecco che già s'intrecciano le viti.
Il cielo è leggero come un angelo.
L'azzurro e l'onda si confondono.
Esco. Se un raggio mi ferisce,
io morirò sul muschio.

Aver pazienza o provar tedio
è troppo semplice. Al diavolo le mie pene.
Voglio che l'estate drammatica
mi leghi al suo carro della fortuna.
Possa io morire per opera tua, Natura,
ma meno vuoto e meno solo!
Al contrario i Pastori, è strano,
muoiono quasi per opera del mondo.

M'usino pure le stagioni.
A te, Natura, mi arrendo,
con la mia fame e tutta la mia sete.
E tu, per favore, nutri e disseta. 
Niente di niente ormai m'illude;
ridere al sole è un pò ridere ai tuoi,
ed io non voglio più ridere a nulla;
e libera sia questa sventura.

Arthur Rimbaud (Charleville, 1854 - Marsiglia, 1891)

Versi tratti da un corollario di quattro poemi (il primo dei quattro) intitolato “Feste della pazienza”.

(¹) il letterale “estenuato hallalì” potrebbe essere interpretato come “un esangue grido di caccia”.

Mattino, 18 Maggio 2019

Molti oggi lo direbbero sabato, per la nostra esigenza di dare un nome ad ogni cosa. Per me oggi è oggi, quest’oggi non ha un nome, un numero, è figlio anonimo della creazione, è un oggi già destinato a divenire ieri, chissà, forse, se ci saremo ancora, se qualcosa non vorrà fermare questo continuo susseguirsi di oggi e ieri, oggi e ieri, oggi e ieri. Il domani quindi è solo immaginazione, è solo desiderio, è sola paura, un sogno o un incubo. Oggi mi sono svegliato sempre di prim’ora, senza aiuto di sveglia alcuna, come ogni oggi e nel buio della stanza ho pensato a quel che è stato ieri, a come è nato quell’oggi appena passato, a come è cresciuto, a come l’ho lasciato spegnersi ai piedi di quest’oggi nascente. Un funerale. Mi sono alzato e sono uscito dal buio della stanza. Mi sono inoltrato ad occhi semichiusi nella prepotenza della luce a me innanzi per arrivare al simulacro di ogni oggi: la caffettiera sull’altare devozionale: il fornello. Ho acceso la sacra fiamma e ho atteso, davanti alla finestra, come ogni mio nuovo oggi, da tanti ieri in qua, come in una preghiera. Gli alberi, la rada erbetta ai loro piedi, le siepi, il mondo fermo tutt’intorno avvolto nel silenzio di questa prima ora, mi lasciano pensare ad un oggi già segnato ai piedi di un altro oggi simile a ieri. La caffettiera recita il suo borbottio mattutino: la prima vera voce consolante che mi illumina gli occhi ancora secchi dal breve sonno trascorso, il vapore che ne esce corposo ricco di aroma mi terge e mi purifica in questo mio intimo rito pagano. (luca)

§

L'alba vitrea avvolgeva
celeste la brughiera
il sole accennava a resistere
coglieva la gioia
del suo primo lentissimo volo
quando quell'assoluto silenzio
una calliope* farfalleggiò
sui primi risvegli sui capolini
variegati delle lucertole.
Una sete fortissima
come se una sbornia colossale
l'avesse la notte posseduta
impazziva la sua gola.
Dai rami delle foglie
tra il rosmarino odoroso
e i cespugli dell'erica
perseguiva la goccia di rugiada
il refrigerio
la vita a cui rinnovarsi
sperare un altro giorno.
Ma non esistevano ruscelli
né rugiade
solo una conca d'acqua piovana
l'appagò
limpida attraente come specchio
e bevve come sete d'aquila
a lungo avidamente.

Salvatore Toma (Maglie, 11 maggio 1953 (Maria Corti ne dice figlio di bravi genitori fioristi, impreparati a dare vita a qualsiasi leggenda o mito familiare) - Maglie, 17 marzo 1987)

Versi tratti dall’antologia Conzoniere della morte, sezione “bestiario salentino del XX secolo” p.63, Giulio Einaudi Editore

* La calliope è un elegantissimo volatile, molto simile all’usignolo per taglia e figura, diffuso dalla Cina settentrionale alla Siberia orientale e all’India. Ma a differenza dell’usignolo, dal piumaggio uniformemente grigio marrone, la calliope ha la gola rossa [N.d.A.]

Mattino, 17 Maggio 2019

Che io resti in piedi davanti alla finestra o che mi metta seduto al divano, che io di questa tazzina tra le mani ne beva il contenuto o lo lasci raffreddare nel suo interno, che mi metta a gironzolare tondo tondo intorno al tavolo centrale o che me ne stia immobile in un angolo, al tempo tutto questo nulla cambia, il tempo sotto questo soffitto fagocita ogni cosa. Cronos ti costringe tra le sue mani e ti porta inesorabilmente nelle sue fauci, non puoi sfuggire alla sua fame divoratrice. La luce solare, a tratti tanto forte da illuminare anche i punti più adombrati della stanza, sembra rimbalzare su tutto, sembra mettere a nudo un luogo che pensavo privato, intimo, sembra entrare finanche e girovagare tra i pensieri disordinati, in questa testa disordinata. La luce, nel suo rimbalzare lesto, sembra poterne sfuggire ma penso sia solo un’illusione e lei lo sa, ecco perché questo suo correre veloce più d’ogni cosa. La gente fuori che vedo scendere dalle auto, che vedo camminare, chi a passi pesanti ancora pigri, chi a passi veloci tanto da far credere di aver voglia di catapultare la persona nel luogo designato, loro ignorano la fame di Cronos, ignorano l’inesorabilità del tempo, loro se la vivono bene. Dall’alto di questa finestra, pensiero sacrificale al tempo, soggiogato e messo a nudo da questa luce prepotente, torno a bere il poco di caffè che resta finché ho tempo. (luca)

§

Carpe Diem

Non chiedere, non è concesso saperlo, Leuconoe,
il destino che a me e a te hanno dato gli dei;
non consultare i calcoli dei Caldei: quant’è meglio accettare
ciò che sarà, sia che Giove ci abbia assegnato molti inverni,
o per ultimo questo che logora il mare Tirreno contro gli scogli;
sii saggia, filtra il vino e tronca nel breve spazio le troppo lunghe speranze;
mentre parliamo, sarà già fuggito il tempo invidioso:
cogli l’attimo e affidati meno che puoi al domani.

Quinto Orazio Flacco (Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.)

Mattino, 15 Maggio 2019

Oh sì! Sì, io l’ho vista, oggi. Quanti ne hanno l’ardire, quanti se ne riempiono la bocca di aurora, aurora, aurora! Ne parlano ma in pochi l’hanno realmente vista. Oh sì! Io l’ho vista nascere. Nascere e perire, giovane, sul suo stesso campo d’azione. Seduto in prima fila sul piccolo divano, i gomiti sull’addome e la tazzina vuota del caffè poggiata nel bordo al socchiudere delle labbra, lo sguardo diritto verso la vetrata a me davanti cinque, sei passi al massimo: l’ho vista nascere, crescere poco e perire subito: luce tenue e calda allo stesso tempo. La sua morte è la sua piena luce della quale l’aria si impossessa, della quale il giorno fatto si imbeve a sazietà. Dal buio mai totale della notte ho visto il costante delinearsi delle foglie della Magnolia oltre la vetrata, da una massa indefinibile e obnubilata dall’oscura notte ad un numero di foglie che ora potrei finanche contare (se solo ne avessi voglia). Indescrivibile il brivido di freddo alle braccia nude, indescrivibile quanto gli occhi possono resistere sbarrati alla vista, eppure qualcosa credo d’aver perduto: il primissimo istante che nella sorpresa ti lascia spiazzato, fesso e non cogli. Una notte e le sue prime ore del giorno sveglio a guardar due foglie, due rami e la facciata del palazzo prospiciente.
Che voi tutti, almeno, abbiate dormito. Buona giornata. (luca)

§

Il poeta solitario

Ogni mattina all'alba questa luce di viole
Suscitando profumi nei giardinetti immobili
Si riversa dai tetti sulle prime automobili
E accende i vetri rotti sparsi fra le aiole;
Sugli alberi gli uccelli che dormivano tranquilli
Si svegliano e si salutano con delicati strilli...
È il momento migliore del mondo materiale
Che rinasce lavato dalla notte spirituale
Dai rami polverosi scende qualche soffio di vento
E il poeta solitario, fisicamente contento
Passeggia per le strade, come Adamo il primo giorno
Guardando attorno al suo nuovo soggiorno
E inserendolo nel suo ragionamento,
Mentre ascolta le voci più o meno profonde
Con cui il mondo a se stesso risponde.

Juan Rodolfo Wilcock (Buenos Aires, 17 aprile 1919 - 
                      Lubriano (Viterbo), 16 marzo 1978)

P.S: ironia della sorte, morì lo stesso giorno in cui ci fu il sequestro di Moro e di lui nessuno se ne accorse.

Mattino, 14 Maggio 2019

In una mia mano la tazzina del caffè è ormai vuota e fredda, reclama altro caffè per colmare quel vuoto, per placare quel freddo. La luce del mattino è oggi intensa: il sole bello e buono, scalda nei trafiletti che dalla sua angolazione tocca: un angolo di davanzale, una porzione di vetrata, una superficie di muro piastrellato, l’altra mia mano sospesa a mezz’aria trafitta dalla sua buona luce. Una mano nell’ombra, regge il freddo della tazzina dalle tracce sul bordo e nel suo interno del caffè ormai bevuto, l’altra mano coglie il tepore di questo primo sole, se ne illumina, ne sente i raggi trafiggere e oltrepassare le punte delle dita illuminandole come tenui, piccole lampadine. Nel mezzo il mio sguardo, come in un equilibrio, nella ricerca di contrappesi, mai nulla di troppo buono, il tentativo di vincere dove buono non c’è. Fuori, accanto alla vetrata, una colonna di formiche, lucide, splendenti, risale lungo la facciata del palazzo per andare chissà dove. Mi sembra di conoscerle, una ad una, nel loro continuo veloce andirivieni d’ogni giorno, d’ogni ora, d’ogni istante. Partono dalla terra ai piedi delle siepi, percorrono un tratto di pavimentazione e risalgono su per il muro, sempre. Altre ne scendono per lo stesso percorso. Perché lo fanno? Dove portano i loro fardelli che montano sui piccoli capi? Ad una domanda al quale non trovo risposta decido sia meglio preparare dell’altro caffè. (luca)

§

La gioia avvenire

Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo

Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna bruciata nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere

Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto

Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.

Franco Fortini, nato Franco Lattes (Firenze, 10 settembre 1917 – Milano, 28 novembre 1994)