Mattino, 16 giugno 2019

Al mattino le distanze si misurano in eternità: un’eternità, un’eternità e qualcosa, un’eternità e più di qualcosa, un’eternità e quasi un’altra eternità e così sia. Al mattino ogni passo è un allunaggio e il corpo sfatto come il letto sfatto. Il cuscino mantiene una forma concava e speculare del viso, il viso trattiene i segni della presenza che è stata del cuscino, della somma dei cuscini di ogni giorno trascorso perché, come un calendario, ogni mattino che passa i segni lasciati dai cuscini sono sempre più profondi. Arrivare all’angolo di cucina dove sono già in ordine gli elementi della moka e il vasetto del caffè macinato al mattino è un richiamare in sé ogni forza possibile. La forza la si cerca nell’ambiente che ci circonda, nel varco della porta, nella credenza, nel tavolo centrale, nello spazio tra il tavolo e il divano al muro, nel divano al muro, nel marmo del piano cottura, nei mobili pensili, insomma su ogni cosa sono costretto a reggermi per poter fare un passo. I cani, uno qua, uno là, ti guardano ed esclamano: «oh signore!», come se sapessero da sempre di un Signore. Che spasso il mattino, che avventura. Al mattino preparare il caffè è un gioco d’avventure spaziali: i gesti goffi e lenti sembrano ingovernabili: un cucchiaino affonda nella polvere di caffè, eternità, un cucchiaino esce fuori dalla polvere di caffè, eternità, un cucchiaino vola colmo di polvere di caffè tra il vasetto della polvere di caffè e l’imbutino già nella metà inferiore della moka, eternità. Qualche eternità dopo, nella vista offuscata d’un miope che vede come un miope appena sveglio e senza i vetri da miope agli occhi, prendi la grave decisione che gli eterni voli di polvere di caffè tra il vasetto e la moka possono bastare e conviene avvitare la parte superiore prima che la povere del caffè possa prendere il volo nell’infinito. Il fuoco. La fiamma azzurra sotto la moka, l’unico tocco di colore che al mattino riconosci tale. L’attesa eterna, i pensieri svegli del rincoglionito. Qualche eternità dopo l’aroma del caffè sgorgato punge al naso. L’aroma, l’elemento primordiale che ha il potere di accelerare gli attimi eterni come una curvatura nel tempo, smuove i sensi e gli oggetti e il mondo che ti circonda assumono una nuova nitidezza, una nuova prospettiva: è il risveglio. Puoi versare il caffè e bere a piccoli eterni sorsi mentre guardi fuori dalla vetrata, nel sole già caldo d’una estate iniziata troppo in fretta, nelle stagioni che non conoscono i tempi eterni, che si alternano senza badare a te, né a nient’altro. Fuori solo cinguettio e un tris di gatti: il tigrato, il bianco, il maculato e nient’altro. È il momento in cui realizzi che fuori è quel giorno che chiamiamo domenica. (luca)

§

Come per caso
 Tornano lunghissimi difficili i giorni
 così succede che mangiando un frutto
 o pulendomi il sedere
 io voglia ricominciare tutto da capo.
 Rifare pipì a letto,
 che la mamma mi tagliasse la carne nel piatto
 e qualcuno la mattina
 si incaricasse di vestirmi.
 Incapace di crescere e diventare grande,
 gli occhi che non riescono a fermare il tempo
 provo l’inutile parola
 e lo spavento a quel suono ormai estraneo.
 Nemico della mia stessa voce
 non mi resta che accorgermi con rumore
 d’essere ancora vivo,
 mi trascino a quattro zampe per casa,
 tossisco e sputo nei vasi da fiori,
 mi arrampico sui mobili.
 L’acqua alla gola, salgo sulla seggiola
 a guardarle queste giornate
 scappar via dietro alla finestra,
 con le mani tocco il vetro
 che mi separa da loro,
 buono solo a schiacciar qualche mosca.
 Scelgo pure il posto dove
 cadrò come per caso
 una volta o l’altra,
 poi apro un cassetto
 ci metto dentro la testa
 e non riesco più a chiuderlo.
 Sarà mio, come di mosca impazzita, il vetro che mi separa dalla realtà.

Fabio Garriba (Soave, 13 novembre 1944 – Verona, 9 agosto 2016)

Versi tratti da Il fastidio della parola; La Nave di Teseo edizioni, 2018.

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